DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE (DCA)
COSA SONO: I disturbi dell’alimentazione sono considerati una patologia “tipica” dell’attuale epoca culturale. Nonostante vi siano descrizioni storiche risalenti ai secoli scorsi, come ad esempio la vita di Santa Caterina, queste patologie apparivano molto meno frequenti nelle indagini epidemiologiche fino ad alcune decadi orsono. Già a cavallo degli anni 60’ e 70’ alcuni studi evidenziano un raddoppio del tasso di incidenza dell’Anoressia Nervosa nella popolazione femminile complessiva ed addirittura un incremento di circa 5 volte se consideriamo la fascia di popolazione più a rischio, cioè tra i 15 e i 24 anni. Oggi si assiste ad un tasso di prevalenza ad un anno dello 0,4% per l'Anoressia Nervosa e del 1-1,5% per la Bulimia Nervosa nella popolazione giovanile femminile (DSM V - A.P.A.)
I due maggiori sistemi di classificazione utilizzati nell’ambito della ricerca e della clinica dei disturbi psichici, il DSM V (A.P.A., 2013; trad. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e l’ICD 10 (W.H.O., 1992; trad. it. Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali), inquadrano due principali disturbi alimentari: Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa.
Le caratteristiche diagnostiche essenziali dell'Anoressia Nervosa prevedono:
a) Restrizione nell'assunzione dell'energia calorica rispetto al fabbisogno, che comporta un significativamente basso peso corporeo rispetto all’età, sesso, percorso di sviluppo e salute fisica. Il peso significativamente basso è definito come un peso che risulta inferiore al minimo normale oppure, per
bambini ed adolescenti, inferiore al minimo atteso per l’età (peso inferiore all’85% di quello atteso oppure un BMI uguale od inferiore a 17.5);
b) Intensa paura di acquistare peso o di ingrassare, oppure un comportamento persistente che interferisce
con l'aumento di peso, nonostante il peso sia significativamente basso;
c) Disturbo nel modo in cui il proprio peso e forme corporee vengono esperite, influenza disfunzionale del peso e delle forme corporee nella considerazione della propria autostima, oppure persistente assenza di riconoscimento della gravità dell'attuale basso peso corporeo;
- sottotipo con restrizioni oppure con abbuffate/condotte di eliminazione in base alla presenza o meno di dieta calorica, digiuno, esercizio fisico eccessivo (iperattività) oppure regolari abbuffate e/o uso di inappropriate condotte eliminative nel corso degli ultimi tre mesi.
Le caratteristiche diagnostiche essenziali della Bulimia Nervosa prevedono:
a) presenza di ricorrenti abbuffate, vale a dire episodi in cui vi è ingestione di una quantità di cibo significativamente maggiore di quello che altre persone, in circostanze e tempi simili, mangerebbero e con accompagnato una sensazione di perdita di controllo;
b) presenza di ricorrenti ed inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’aumento di peso, come ad esempio utilizzo di vomito autoindotto, lassativi, diuretici, altri farmaci, digiuno o eccessivo esercizio fisico;
c) le abbuffate ed i comportamenti compensatori accadono entrambi, in media, almeno una volta alla settimana per tre mesi;
d) l’autostima appare eccessivamente influenzata dal peso e dalle forme corporee;
e) in assenza di anoressia nervosa;
(American Psychiatric Association, 2013).
PERCHE' SUCCEDE: I maggiori modelli teorici di stampo cognitivo comportamentale sostengono che il disturbo si sviluppi e poi si mantenga grazie all’intervento di numerose variabili.
La teoria presuppone che abbiano origine dall’interazione multipla e complessa di fattori di rischio individuali, familiari e culturali. Il disturbo, una volta attivato da alcuni fattori precipitanti, è mantenuto da convinzioni riguardo il significato personale attribuito al peso e alle forme corporee, che interagiscono a loro volta con un insieme di caratteristiche stabili, sia individuali che familiari, come ad esempio il perfezionismo, la regolazione affettiva, l’ascetismo e le paure legate alla maturità psicobiologica. Questi tratti e sistemi di significato sono regolati e mantenuti da rinforzi positivi e\o negativi, che sono abitualmente associati alla dieta, alla perdita di peso e agli effetti della denutrizione.
Tra i fattori di rischio o predisponenti possiamo elencare alcune delle variabili emerse dalle numerose ricerche in materia:
Nel primo gruppo rientrano convinzioni di impotenza, che si riflettono in pensieri automatici e sensazioni di incapacità, di inadeguatezza, di assenza di controllo, di essere un fallimento.
Nel secondo gruppo sono presenti convinzioni che ruotano attorno al concetto di non amabilità e di non valore, come il considerarsi indesiderabile, non voluto, rifiutato, cattivo.
Mentre, tra le convinzioni centrali negative legate al peso e le forme corporee, le pazienti soffrono per il considerarsi grasse in toto oppure solo in alcune parti del corpo.
Secondo questo modello, le convinzioni legate al sé e quelle legate al peso e forme corporee si fondono tra loro, portando a due tipi di conseguenze. Innanzitutto, il disturbo può essere scatenato e mantenuto sia da fattori che attivano le convinzioni su di sé sia da fattori che attivano le convinzioni sul peso e le forme corporee. Inoltre, e di conseguenza, i significati che un individuo attribuisce al peso e alle forme corporee diventano multipli e diversi da individuo a individuo, in quanto condizionati dall’interazione tra le convinzioni. Ad esempio, “io sono grasso” può avere il significato di “sono inadeguato” oppure “sono senza controllo” oppure ancora “non sono amabile”.
Secondo il modello cognitivo, gli schemi negativi sottostanti ad un disturbo psicologico rimangono tendenzialmente inattivi e quiescenti fino a quando particolari fattori scatenanti accadono nel corso della vita.
I fattori precipitanti che attivano le convinzioni negative su di sé e sul corpo sono spesso quelli che fanno parte del normale sviluppo di un individuo, come la pubertà, il lasciare la famiglia, l’entrata nel mondo degli adulti. Altre volte i fattori possono consistere in eventi particolarmente negativi o minaccianti l’autostima dell’individuo, come la perdita di una figura di sostegno, l’essere criticati o presi in giro per il proprio aspetto, la rottura di un rapporto sentimentale, un fallimento a scuola o nel lavoro. In ogni caso, la manifestazione più evidente che ne risulta consiste in una grave preoccupazione per il proprio aspetto che nasconde altre profonde convinzioni di inadeguatezza.
L’iniziare una dieta ferrea appare in molti casi sia la possibile soluzione al proprio malessere esistenziale sia, purtroppo però, anche l’inizio della conclamazione del disturbo. Infatti, una volta iniziata una assunzione alimentare fortemente restrittiva oppure un comportamento eliminativo (come l’uso del vomito autoindotto), si verificano importanti fattori che mantengono il disturbo. La dieta e la perdita di peso possono dare notevoli sensazioni e significati di autocontrollo, di superiorità, oppure possono favorire commenti positivi dagli altri. Altri possibili vantaggi consistono nell’evitare situazioni vissute come aversive, come l’avere un corpo da donna con i conseguenti ruoli sociali e sessuali che lo accompagnano.
Inoltre, con la perdita di peso compaiono inesorabilmente tutta una serie di sintomi che mantengono il disturbo e che per lo più sono secondari alla denutrizione e al digiuno, così come evidenziato da un famoso studio in materia (Keys et al., 1950):
COSA FARE: L’intervento, che deriva dalla concettualizzazione più sopra descritta, struttura il processo in tre fasi fondamentali.
Nella prima fase, l’enfasi deve essere posta innanzitutto a favore di una relazione ed alleanza terapeutica positiva, all’assessment del disturbo dell’alimentazione e all’accordo sugli obiettivi terapeutici.
Circa il primo punto, è comune osservazione come sia l’invio che la motivazione alla terapia siano spesso estrinsechi alla paziente e quindi indotti forzatamente da altri, come ad esempio i familiari. A questo va inoltre aggiunto che almeno nelle prime fasi della malattia, non vi è consapevolezza oppure è presente negazione del problema e tutto questo implica il rischio di instaurare un rapporto di scarsa collaborazione tra paziente e terapeuta. Appare quindi opportuno per prima cosa favorire l’ascolto e l’accettazione del punto di vista e dei problemi espressi dalla paziente.
Un importante strategia, che può favorire sia una maggiore consapevolezza del disturbo che la motivazione al cambiamento, consiste in una forma di psicoeducazione sulla gravità e sulla funzione di mantenimento del disturbo dei comportamenti di compensazione e di eliminazione alimentare e dei sintomi da digiuno che questi comportano. Ad esempio, la dieta ferrea e le condotte di eliminazione tendono a favorire episodi di abbuffate che a loro volta inducono comportamenti di controllo ancora più restrittivi, in un circolo vizioso che si autoperpetua. Anche la spiegazione “medica” dei rischi fisici e delle conseguenze medico/psicologiche di una scorretta alimentazione possono essere in genere fonte di interesse per queste pazienti.
Un altro argomento della prima parte degli incontri, dovrebbe includere una discussione sulle multiple funzioni dell’anoressia nervosa. Ad esempio, l’evitamento di un corpo di donna adulto favorisce l’allontanamento di una serie di ruoli sociali e sessuali che possono incutere timore ad una adolescente che si sente impreparata ed inadeguata alla vita adulta, così come esemplificato dai lavori di Crisp (1970) e dalle osservazioni della corrente teorica “femminista”.
In seguito alla raccolta delle informazioni che permettano una corretta diagnosi psicologica e medica, diventa opportuno concordare con la paziente gli obiettivi del trattamento. Il razionale dell’intervento cognitivo-comportamentale prevede un processo che idealmente segue un “doppio binario”, dove da una parte si focalizza sulle questioni legate al peso, alle abbuffate e alle condotte di eliminazione mentre dall’altra si riferisce ai temi psicologici che hanno favorito e mantengono la sintomatologia, come ad esempio la scarsa autostima, le difficoltà interpersonali, l’espressione delle emozioni, ecc…
Circa il primo aspetto si affronta la necessità di un aumento di peso fino ad una soglia minima, stabilendo quindi un range di peso che possa favorire un benessere ed un migliore funzionamento non solo fisico ma anche mentale. Alcuni autori suggeriscono il raggiungimento del 90% del peso più elevato raggiunto mentre altri consigliano quel peso e quella massa grassa di peso che possa favorire il ritorno delle mestruazioni. A questo scopo appare utile da una parte una auto-osservazione del comportamento alimentare e dall’altra la pianificazione dei pasti con un terapeuta esperto in scienze dell’alimentazione. Inoltre si concordano con la paziente strategie sia cognitive che comportamentali tese ad interrompere l’eventuale presenza di cicli di abbuffate e di vomito.
In questa prima fase del percorso, l’intervento cognitivo è teso a favorire sia un aumento della motivazione sia una prima ristrutturazione di quelle convinzioni che favoriscono la resistenza al cambiamento. Il modello di Prochaska e Di Clemente (1983) sulle fasi della motivazione può essere utilmente considerato nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione. Essi prevedono cinque fasi del cambiamento che permettono di comprendere schematicamente il grado di motivazione del momento e le strategie per incrementarlo. In molti casi all’inizio del trattamento le pazienti si trovano nella fase cosiddetta di “precontemplazione”, nella quale non vi è adeguata spinta motivazionale al cambiamento. In questa situazione la maggiore consapevolezza degli svantaggi del disturbo potrebbe facilitare l’avanzamento nella fase di “contemplazione”, vale a dire in una situazione dove un accordo sugli obiettivi può favorire l’inizio del cambiamento e quindi la fase dell’”azione”. In ogni caso la motivazione raggiunta non permane costante ed immutata ma prevede un continuo rinnovamento che possa permettere il “mantenimento” del tentativo di cambiamento.
Le pazienti con un disturbo dell’alimentazione appaiono in genere come molto resistenti ai tentativi di ristrutturazione cognitiva mirati alle convinzioni disfunzioni e pertanto in prima battuta potrebbe ottenere maggiore efficacia la considerazione dell’utilità o meno del mantenere certi comportamenti e convinzioni, considerando vantaggi e svantaggi che questi comportano. Una aiuto a favore di atteggiamenti più costruttivi nel lungo termine, può essere dato dall’indurre nella paziente una forma di “controcultura”, che metta in discussione gli attuali valori culturali nei riguardi della magrezza e i pregiudizi nei confronti del sovrappeso.
Infine, in questa prima fase è utile determinare assieme alla paziente il grado di coinvolgimento ottimale della famiglia nel tentativo di guarigione. Coinvolgimento che sarà naturalmente maggiore in caso di giovane età della paziente ma che può in ogni caso essere allentato in situazioni di elevata emotività espressa.
Nella seconda fase, l’intervento cognitivo assume un ruolo più incisivo e diretto. Oltre a favorire una continua rivitalizzazione della motivazione al cambiamento, vengono attuate le procedure per ristrutturare i pensieri automatici, gli schemi cognitivi e le distorsioni di pensiero, secondo le procedure previste originariamente da Beck e colleghi (Beck et al., 1976,1979). Lo scopo è quello di favorire l’adozione di pensieri e modalità di ragionamento più funzionali e meno distorte, dapprima durante la seduta terapeutica e più tardi in “vivo”, grazie anche all’ausilio del diario emotivo e di esercizi comportamentali di verifica dei pensieri.
Queste procedure dovrebbero nel prosieguo degli incontri far emergere sempre più le tematiche psicologiche profonde disturbanti e quindi allargare il focus di intervento. Tra queste si annovera certamente un deficitario concetto di sé e quindi di autostima nelle sue varie sfaccettature, come ad esempio il senso di autoefficacia. Spesso questo aspetto negativo precede la comparsa dei sintomi dei disturbi dell’alimentazione e il senso di controllo che questi favoriscono ne allevia la sofferenza.
Un tema che molto frequentemente accompagna queste pazienti concerne il grave perfezionismo patologico. Questo aspetto può venire affrontato con un intervento focalizzato tramite forme di ristrutturazione cognitiva ed esercizi comportamentali di esposizione.
Un ulteriore aspetto patogeno, riscontrato già dai primi clinici specializzati in materia come Hilde Bruch (1962), si riferisce alla difficoltà nel riconoscere ed esprime le emozioni. Tale caratteristica sembra dovuta non ad una assenza di vita emotiva ma ad una insieme di regole e convinzioni applicate disfunzionalmente circa la legittimità, la desiderabilità e l’accettabilità delle proprie esperienze propriocettive ed emotive. L’intervento cognitivo dovrebbe mirare anche alla rivalutazione di queste regole.
L’isolamento e i negativi rapporti interpersonali spesso implicano importanti deficit nel pensiero e nel comportamento assertivo, sia in senso aggressivo che passivo e sia a livello familiare che a livello sociale allargato. Soprattutto per le pazienti più giovani, l’intervento diretto con la famiglia può essere necessario e la sua importanza viene riconosciuta anche a livello empirico da alcuni studi (Crisp et al., 1991).
Circa il disturbo dell’immagine corporea, le normali tecniche cognitive, come ad esempio la ristrutturazione cognitiva, non sembrano apportare grandi benefici. Per tale motivo, recentemente alcuni studiosi propongono di focalizzare l’intervento cognitivo “solo” sul “bilancio” tra vantaggi e svantaggi dell’eccessiva preoccupazione ed attenzione per le forme corporee, in integrazione ad interventi più diretti alla componente emotiva. Tra questi ultimi è da menzionare un intervento sperimentale che favorisce l’”emotional processing” (Rachman, 1980) mediante un’esposizione controllata allo specchio (Cappellari et al., 2001; Wilson, 1999).
Nella terza fase l’accento viene posto sulla preparazione alla conclusione e alla prevenzione delle ricadute. Innanzitutto appare utile rinforzare e stimolare ad un continuo impegno, riassumendo i progressi raggiunti sia nell’area concernente l’aspetto alimentare sia nelle aree psicologiche ed interpersonali deficitarie.
Per aiutare la prevenzione delle ricadute, è importante considerare con la paziente le aree di vulnerabilità ancora presenti. Tra queste, numerosi studi evidenziano come l’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee siano uno dei sintomi che tendono a modificarsi con maggiore difficoltà e lentezza. Altri fattori di vulnerabilità possono concernere situazioni familiari disturbanti, vulnerabilità agli eventi stressanti, difficoltà interpersonali. Un altro elemento concerne l’abilità nel riconoscere i segnali premonitori di una possibile scivolata e nel prendere posizione a favore di una aiuto terapeutico prima che questa si trasformi in una vera e propria ricaduta.
COSA SONO: I disturbi dell’alimentazione sono considerati una patologia “tipica” dell’attuale epoca culturale. Nonostante vi siano descrizioni storiche risalenti ai secoli scorsi, come ad esempio la vita di Santa Caterina, queste patologie apparivano molto meno frequenti nelle indagini epidemiologiche fino ad alcune decadi orsono. Già a cavallo degli anni 60’ e 70’ alcuni studi evidenziano un raddoppio del tasso di incidenza dell’Anoressia Nervosa nella popolazione femminile complessiva ed addirittura un incremento di circa 5 volte se consideriamo la fascia di popolazione più a rischio, cioè tra i 15 e i 24 anni. Oggi si assiste ad un tasso di prevalenza ad un anno dello 0,4% per l'Anoressia Nervosa e del 1-1,5% per la Bulimia Nervosa nella popolazione giovanile femminile (DSM V - A.P.A.)
I due maggiori sistemi di classificazione utilizzati nell’ambito della ricerca e della clinica dei disturbi psichici, il DSM V (A.P.A., 2013; trad. it. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e l’ICD 10 (W.H.O., 1992; trad. it. Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali), inquadrano due principali disturbi alimentari: Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa.
Le caratteristiche diagnostiche essenziali dell'Anoressia Nervosa prevedono:
a) Restrizione nell'assunzione dell'energia calorica rispetto al fabbisogno, che comporta un significativamente basso peso corporeo rispetto all’età, sesso, percorso di sviluppo e salute fisica. Il peso significativamente basso è definito come un peso che risulta inferiore al minimo normale oppure, per
bambini ed adolescenti, inferiore al minimo atteso per l’età (peso inferiore all’85% di quello atteso oppure un BMI uguale od inferiore a 17.5);
b) Intensa paura di acquistare peso o di ingrassare, oppure un comportamento persistente che interferisce
con l'aumento di peso, nonostante il peso sia significativamente basso;
c) Disturbo nel modo in cui il proprio peso e forme corporee vengono esperite, influenza disfunzionale del peso e delle forme corporee nella considerazione della propria autostima, oppure persistente assenza di riconoscimento della gravità dell'attuale basso peso corporeo;
- sottotipo con restrizioni oppure con abbuffate/condotte di eliminazione in base alla presenza o meno di dieta calorica, digiuno, esercizio fisico eccessivo (iperattività) oppure regolari abbuffate e/o uso di inappropriate condotte eliminative nel corso degli ultimi tre mesi.
Le caratteristiche diagnostiche essenziali della Bulimia Nervosa prevedono:
a) presenza di ricorrenti abbuffate, vale a dire episodi in cui vi è ingestione di una quantità di cibo significativamente maggiore di quello che altre persone, in circostanze e tempi simili, mangerebbero e con accompagnato una sensazione di perdita di controllo;
b) presenza di ricorrenti ed inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’aumento di peso, come ad esempio utilizzo di vomito autoindotto, lassativi, diuretici, altri farmaci, digiuno o eccessivo esercizio fisico;
c) le abbuffate ed i comportamenti compensatori accadono entrambi, in media, almeno una volta alla settimana per tre mesi;
d) l’autostima appare eccessivamente influenzata dal peso e dalle forme corporee;
e) in assenza di anoressia nervosa;
(American Psychiatric Association, 2013).
PERCHE' SUCCEDE: I maggiori modelli teorici di stampo cognitivo comportamentale sostengono che il disturbo si sviluppi e poi si mantenga grazie all’intervento di numerose variabili.
La teoria presuppone che abbiano origine dall’interazione multipla e complessa di fattori di rischio individuali, familiari e culturali. Il disturbo, una volta attivato da alcuni fattori precipitanti, è mantenuto da convinzioni riguardo il significato personale attribuito al peso e alle forme corporee, che interagiscono a loro volta con un insieme di caratteristiche stabili, sia individuali che familiari, come ad esempio il perfezionismo, la regolazione affettiva, l’ascetismo e le paure legate alla maturità psicobiologica. Questi tratti e sistemi di significato sono regolati e mantenuti da rinforzi positivi e\o negativi, che sono abitualmente associati alla dieta, alla perdita di peso e agli effetti della denutrizione.
Tra i fattori di rischio o predisponenti possiamo elencare alcune delle variabili emerse dalle numerose ricerche in materia:
- demografici: in prevalenza donne, bianche occidentali in età adolescenziale o prima giovinezza
- fisici: es. obesità prepuberale, menarca precoce, disturbi gastrointestinali
- psicologici: tratti di personalità come perfezionismo, scarsa autostima e ricerca della novità, disturbi psicologici affettivi e d’ansia
- eventi avversi: esperienze traumatiche, come abuso sessuale, lutti famigliari
- fattori familiari: parenti con disturbi dell’alimentazione o altri disturbi psicologici
- ambiente familiare inadeguato: divorzio tra i genitori, criticismo, abbandono, alte aspettative, iperprotettività
- fattori socio-culturali: pressione sociale verso la magrezza, modificazione del ruolo e del comportamento sessuale nella donna, mitizzazione dei disturbi dell’alimentazione.
Nel primo gruppo rientrano convinzioni di impotenza, che si riflettono in pensieri automatici e sensazioni di incapacità, di inadeguatezza, di assenza di controllo, di essere un fallimento.
Nel secondo gruppo sono presenti convinzioni che ruotano attorno al concetto di non amabilità e di non valore, come il considerarsi indesiderabile, non voluto, rifiutato, cattivo.
Mentre, tra le convinzioni centrali negative legate al peso e le forme corporee, le pazienti soffrono per il considerarsi grasse in toto oppure solo in alcune parti del corpo.
Secondo questo modello, le convinzioni legate al sé e quelle legate al peso e forme corporee si fondono tra loro, portando a due tipi di conseguenze. Innanzitutto, il disturbo può essere scatenato e mantenuto sia da fattori che attivano le convinzioni su di sé sia da fattori che attivano le convinzioni sul peso e le forme corporee. Inoltre, e di conseguenza, i significati che un individuo attribuisce al peso e alle forme corporee diventano multipli e diversi da individuo a individuo, in quanto condizionati dall’interazione tra le convinzioni. Ad esempio, “io sono grasso” può avere il significato di “sono inadeguato” oppure “sono senza controllo” oppure ancora “non sono amabile”.
Secondo il modello cognitivo, gli schemi negativi sottostanti ad un disturbo psicologico rimangono tendenzialmente inattivi e quiescenti fino a quando particolari fattori scatenanti accadono nel corso della vita.
I fattori precipitanti che attivano le convinzioni negative su di sé e sul corpo sono spesso quelli che fanno parte del normale sviluppo di un individuo, come la pubertà, il lasciare la famiglia, l’entrata nel mondo degli adulti. Altre volte i fattori possono consistere in eventi particolarmente negativi o minaccianti l’autostima dell’individuo, come la perdita di una figura di sostegno, l’essere criticati o presi in giro per il proprio aspetto, la rottura di un rapporto sentimentale, un fallimento a scuola o nel lavoro. In ogni caso, la manifestazione più evidente che ne risulta consiste in una grave preoccupazione per il proprio aspetto che nasconde altre profonde convinzioni di inadeguatezza.
L’iniziare una dieta ferrea appare in molti casi sia la possibile soluzione al proprio malessere esistenziale sia, purtroppo però, anche l’inizio della conclamazione del disturbo. Infatti, una volta iniziata una assunzione alimentare fortemente restrittiva oppure un comportamento eliminativo (come l’uso del vomito autoindotto), si verificano importanti fattori che mantengono il disturbo. La dieta e la perdita di peso possono dare notevoli sensazioni e significati di autocontrollo, di superiorità, oppure possono favorire commenti positivi dagli altri. Altri possibili vantaggi consistono nell’evitare situazioni vissute come aversive, come l’avere un corpo da donna con i conseguenti ruoli sociali e sessuali che lo accompagnano.
Inoltre, con la perdita di peso compaiono inesorabilmente tutta una serie di sintomi che mantengono il disturbo e che per lo più sono secondari alla denutrizione e al digiuno, così come evidenziato da un famoso studio in materia (Keys et al., 1950):
- l’estrema preoccupazione per il cibo esagera la tendenza all’uso del controllo alimentare come indice di autocontrollo e autovalutazione,
- il precoce senso di sazietà e pienezza (dovuto al rallentato svuotamento gastrico per la denutrizione) può indurre un senso di fallimento e quindi a restringere ancora di più l’alimentazione,
- le abbuffate favoriscono sensi di colpa che a loro volta inducono condotte di eliminazione o di compenso,
- il calo del tono dell’umore favorisce la disistima di sé e l’uso del cibo come parametro per autovalutarsi,
- l’ansia che segue la denutrizione stimola il controllo dell’alimentazione,
- l’isolamento sociale impedisce lo sviluppo di relazioni positive che possono favorire l’autostima,
- il deficit di concentrazione, osservato nel digiuno, può minacciare il senso di autocontrollo e perciò favorire una percezione di sé come persone non prevedibile e quindi un senso di insicurezza, che il controllo dell’alimentazione può invece ancora una volta dare,
- la diminuzione dell’interesse sessuale impedisce l’incontro con persone del sesso opposto e quindi lo sviluppo di una vita di relazione adulta.
COSA FARE: L’intervento, che deriva dalla concettualizzazione più sopra descritta, struttura il processo in tre fasi fondamentali.
Nella prima fase, l’enfasi deve essere posta innanzitutto a favore di una relazione ed alleanza terapeutica positiva, all’assessment del disturbo dell’alimentazione e all’accordo sugli obiettivi terapeutici.
Circa il primo punto, è comune osservazione come sia l’invio che la motivazione alla terapia siano spesso estrinsechi alla paziente e quindi indotti forzatamente da altri, come ad esempio i familiari. A questo va inoltre aggiunto che almeno nelle prime fasi della malattia, non vi è consapevolezza oppure è presente negazione del problema e tutto questo implica il rischio di instaurare un rapporto di scarsa collaborazione tra paziente e terapeuta. Appare quindi opportuno per prima cosa favorire l’ascolto e l’accettazione del punto di vista e dei problemi espressi dalla paziente.
Un importante strategia, che può favorire sia una maggiore consapevolezza del disturbo che la motivazione al cambiamento, consiste in una forma di psicoeducazione sulla gravità e sulla funzione di mantenimento del disturbo dei comportamenti di compensazione e di eliminazione alimentare e dei sintomi da digiuno che questi comportano. Ad esempio, la dieta ferrea e le condotte di eliminazione tendono a favorire episodi di abbuffate che a loro volta inducono comportamenti di controllo ancora più restrittivi, in un circolo vizioso che si autoperpetua. Anche la spiegazione “medica” dei rischi fisici e delle conseguenze medico/psicologiche di una scorretta alimentazione possono essere in genere fonte di interesse per queste pazienti.
Un altro argomento della prima parte degli incontri, dovrebbe includere una discussione sulle multiple funzioni dell’anoressia nervosa. Ad esempio, l’evitamento di un corpo di donna adulto favorisce l’allontanamento di una serie di ruoli sociali e sessuali che possono incutere timore ad una adolescente che si sente impreparata ed inadeguata alla vita adulta, così come esemplificato dai lavori di Crisp (1970) e dalle osservazioni della corrente teorica “femminista”.
In seguito alla raccolta delle informazioni che permettano una corretta diagnosi psicologica e medica, diventa opportuno concordare con la paziente gli obiettivi del trattamento. Il razionale dell’intervento cognitivo-comportamentale prevede un processo che idealmente segue un “doppio binario”, dove da una parte si focalizza sulle questioni legate al peso, alle abbuffate e alle condotte di eliminazione mentre dall’altra si riferisce ai temi psicologici che hanno favorito e mantengono la sintomatologia, come ad esempio la scarsa autostima, le difficoltà interpersonali, l’espressione delle emozioni, ecc…
Circa il primo aspetto si affronta la necessità di un aumento di peso fino ad una soglia minima, stabilendo quindi un range di peso che possa favorire un benessere ed un migliore funzionamento non solo fisico ma anche mentale. Alcuni autori suggeriscono il raggiungimento del 90% del peso più elevato raggiunto mentre altri consigliano quel peso e quella massa grassa di peso che possa favorire il ritorno delle mestruazioni. A questo scopo appare utile da una parte una auto-osservazione del comportamento alimentare e dall’altra la pianificazione dei pasti con un terapeuta esperto in scienze dell’alimentazione. Inoltre si concordano con la paziente strategie sia cognitive che comportamentali tese ad interrompere l’eventuale presenza di cicli di abbuffate e di vomito.
In questa prima fase del percorso, l’intervento cognitivo è teso a favorire sia un aumento della motivazione sia una prima ristrutturazione di quelle convinzioni che favoriscono la resistenza al cambiamento. Il modello di Prochaska e Di Clemente (1983) sulle fasi della motivazione può essere utilmente considerato nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione. Essi prevedono cinque fasi del cambiamento che permettono di comprendere schematicamente il grado di motivazione del momento e le strategie per incrementarlo. In molti casi all’inizio del trattamento le pazienti si trovano nella fase cosiddetta di “precontemplazione”, nella quale non vi è adeguata spinta motivazionale al cambiamento. In questa situazione la maggiore consapevolezza degli svantaggi del disturbo potrebbe facilitare l’avanzamento nella fase di “contemplazione”, vale a dire in una situazione dove un accordo sugli obiettivi può favorire l’inizio del cambiamento e quindi la fase dell’”azione”. In ogni caso la motivazione raggiunta non permane costante ed immutata ma prevede un continuo rinnovamento che possa permettere il “mantenimento” del tentativo di cambiamento.
Le pazienti con un disturbo dell’alimentazione appaiono in genere come molto resistenti ai tentativi di ristrutturazione cognitiva mirati alle convinzioni disfunzioni e pertanto in prima battuta potrebbe ottenere maggiore efficacia la considerazione dell’utilità o meno del mantenere certi comportamenti e convinzioni, considerando vantaggi e svantaggi che questi comportano. Una aiuto a favore di atteggiamenti più costruttivi nel lungo termine, può essere dato dall’indurre nella paziente una forma di “controcultura”, che metta in discussione gli attuali valori culturali nei riguardi della magrezza e i pregiudizi nei confronti del sovrappeso.
Infine, in questa prima fase è utile determinare assieme alla paziente il grado di coinvolgimento ottimale della famiglia nel tentativo di guarigione. Coinvolgimento che sarà naturalmente maggiore in caso di giovane età della paziente ma che può in ogni caso essere allentato in situazioni di elevata emotività espressa.
Nella seconda fase, l’intervento cognitivo assume un ruolo più incisivo e diretto. Oltre a favorire una continua rivitalizzazione della motivazione al cambiamento, vengono attuate le procedure per ristrutturare i pensieri automatici, gli schemi cognitivi e le distorsioni di pensiero, secondo le procedure previste originariamente da Beck e colleghi (Beck et al., 1976,1979). Lo scopo è quello di favorire l’adozione di pensieri e modalità di ragionamento più funzionali e meno distorte, dapprima durante la seduta terapeutica e più tardi in “vivo”, grazie anche all’ausilio del diario emotivo e di esercizi comportamentali di verifica dei pensieri.
Queste procedure dovrebbero nel prosieguo degli incontri far emergere sempre più le tematiche psicologiche profonde disturbanti e quindi allargare il focus di intervento. Tra queste si annovera certamente un deficitario concetto di sé e quindi di autostima nelle sue varie sfaccettature, come ad esempio il senso di autoefficacia. Spesso questo aspetto negativo precede la comparsa dei sintomi dei disturbi dell’alimentazione e il senso di controllo che questi favoriscono ne allevia la sofferenza.
Un tema che molto frequentemente accompagna queste pazienti concerne il grave perfezionismo patologico. Questo aspetto può venire affrontato con un intervento focalizzato tramite forme di ristrutturazione cognitiva ed esercizi comportamentali di esposizione.
Un ulteriore aspetto patogeno, riscontrato già dai primi clinici specializzati in materia come Hilde Bruch (1962), si riferisce alla difficoltà nel riconoscere ed esprime le emozioni. Tale caratteristica sembra dovuta non ad una assenza di vita emotiva ma ad una insieme di regole e convinzioni applicate disfunzionalmente circa la legittimità, la desiderabilità e l’accettabilità delle proprie esperienze propriocettive ed emotive. L’intervento cognitivo dovrebbe mirare anche alla rivalutazione di queste regole.
L’isolamento e i negativi rapporti interpersonali spesso implicano importanti deficit nel pensiero e nel comportamento assertivo, sia in senso aggressivo che passivo e sia a livello familiare che a livello sociale allargato. Soprattutto per le pazienti più giovani, l’intervento diretto con la famiglia può essere necessario e la sua importanza viene riconosciuta anche a livello empirico da alcuni studi (Crisp et al., 1991).
Circa il disturbo dell’immagine corporea, le normali tecniche cognitive, come ad esempio la ristrutturazione cognitiva, non sembrano apportare grandi benefici. Per tale motivo, recentemente alcuni studiosi propongono di focalizzare l’intervento cognitivo “solo” sul “bilancio” tra vantaggi e svantaggi dell’eccessiva preoccupazione ed attenzione per le forme corporee, in integrazione ad interventi più diretti alla componente emotiva. Tra questi ultimi è da menzionare un intervento sperimentale che favorisce l’”emotional processing” (Rachman, 1980) mediante un’esposizione controllata allo specchio (Cappellari et al., 2001; Wilson, 1999).
Nella terza fase l’accento viene posto sulla preparazione alla conclusione e alla prevenzione delle ricadute. Innanzitutto appare utile rinforzare e stimolare ad un continuo impegno, riassumendo i progressi raggiunti sia nell’area concernente l’aspetto alimentare sia nelle aree psicologiche ed interpersonali deficitarie.
Per aiutare la prevenzione delle ricadute, è importante considerare con la paziente le aree di vulnerabilità ancora presenti. Tra queste, numerosi studi evidenziano come l’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee siano uno dei sintomi che tendono a modificarsi con maggiore difficoltà e lentezza. Altri fattori di vulnerabilità possono concernere situazioni familiari disturbanti, vulnerabilità agli eventi stressanti, difficoltà interpersonali. Un altro elemento concerne l’abilità nel riconoscere i segnali premonitori di una possibile scivolata e nel prendere posizione a favore di una aiuto terapeutico prima che questa si trasformi in una vera e propria ricaduta.